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EMDR – Psicologo Monteverde – dott.ssa Eugenia Cardilli
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Cos’è la dipendenza da internet?

Il mondo virtuale sostituisce il mondo reale: è un mondo senza limiti nel quale comunichiamo e ci relazioniamo. Le chat, le email e i social network, e tra i più noti in Italia vi sono Facebook, Instagram, e Snapchat, attraggano principalmente i giovani. Questo perché l’adolescente, che costruisce la propria identità attraverso i web, gli permette di entrare in contatto con l’altro con diverse modalità dirette ed indirette, riducendo al minimo i tempi di attesa. Collegandosi al web si può giocare, comprare, discutere, informarsi vedere foto e video.

Internet può essere così appetibile, gratificante e perverso da allontanare il frequentatore digitale dalla vita reale, carica di conflitti e rifugiarsi in un ambiente virtuale più sicuro, mettendo in atto un comportamento illusorio di controllo e potere, è l’inizio di una dipendenza da internet.

Quando parliamo di dipendenza non sana non parliamo solo dell’assunzione di sostanze come cocaina, eroina, marijuana, alcool, caffeina, e tabacco ma esistono altri tipi di dipendenza senza sostanza ma comportamentali. Queste avvengono quando un normale comportamento si trasforma in una ricerca di piacere incontrollata ed assume i connotati patologici.

Tali comportamenti sono compulsivi e vengono messi in atto alla ricerca di una ricompensa, anche se in seguito hanno delle conseguenze negative. Il soggetto a lungo andare non proverà più piacere ma lo proverà solo all’inizio, poi diventerà una compulsione incontrollabile altamente patologica, con ansia, rabbia e depressione, disturbo ossessivo/compulsivo, fobia sociale, disturbo di personalità (maggiormente disturbo narcisistico, evitante e dipendente), bassa autostima e autoefficacia.

Il disagio psicologico sarà avvertito soprattutto nei momenti di astinenza, quando il soggetto ridurrà o interrompe la dipendenza comportamentale; quindi, fra le dipendenze comportamentali, rientrano lo shopping compulsivo, la dipendenza affettiva, la dipendenza sessuale, il gioco d’azzardo patologico, dal lavoro e da internet. Cioè azioni compulsive e disfunzionali inerenti l’utilizzo di computer, smartphone, tablet e i social network, ogni apparato collegato al vasto mondo di Internet.

Tramite Internet il soggetto ha un accessibilità immediata con facilità e velocità 24 ore su 24, quindi con il computer, con lo smartphone il tablet ci si può collegare in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, si ha la percezione di controllare gli altri, le proprie emozioni e comportamenti.

Chi si collega su Internet pensa di essere invincibile ed onnipotente, ed eccitato: proprio questo stato che percepiscono tramuterà un comportamento normale in patologico.

Il campanello d’allarme che ci fa pensare ad una dipendenza da Internet incontrollato potrebbero essere degli eventi traumatici che influenzano l’umore del soggetto: problemi economici, difficoltà scolastiche, difficoltà con i genitori, partner e amici, licenziamento, separazione, lutto e cambiamento di status.

Quindi il soggetto percepisce il mondo come pericoloso e si rifugia in Internet, fuggendo dalla vita, in un mondo meno pericoloso, dove può rapportarsi come vuole.

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Perché mio figlio “o mangia poco o mangia tanto”?

Il compito dello psicologo nel comportamento alimentare va dalla nascita e adolescenza fino all’età adulta: lo psicologo non somministra diete ma lavora in collaborazione con la famiglia del bambino, cioè il provvedere a rifornire l’organismo di elementi adatti a svolgere le normali attività quotidiane, a crescere e a svilupparsi.

Premesso che, come ogni altro, il comportamento alimentare è influenzato da fattori genetici ma soprattutto ambientali, sociali, famigliari, e di personalità.

In questi ultimi anni ci troviamo di fronte a una nuova famiglia: nonni, baby sitter, nidi nelle scuole dell’infanzia piuttosto che genitori.

Infatti “i nonni troppo buoni”, che per il benessere affettivo rischiano di diventare troppo permissivi sia nell’alimentazione che nell’attività sportiva, possiamo dire che non adottano un atteggiamento positivo. I genitori sono riluttanti ad intervenire perché sanno di avere bisogno dei nonni nella cura dei figli.

Lo psicologo può aiutare a far capire ai genitori che significato si deve dare al cibo, quindi occuparsi delle loro motivazioni e dare sostegno. Lo psicologo lavora nell’ambito dell’educazione e non della nutrizione, non sul “cosa mangiare” ma sul “come mangiare”. Quindi: comportamenti sani e consapevoli, come motivare i bambini, gli adolescenti e gli adulti a una alimentazione sana, senza farli sentire in colpa e frustranti anche se non ci riescono.

Tre sono le fasi dell’alimentazione infantile: allattamento, svezzamento e alimentazione solida.

L’allattamento naturale fornisce l’alimento più idoneo per assicurare uno sviluppo e una crescita sana. Quando l’allattamento naturale non è sufficiente si passa all’allattamento artificiale, che assicura ugualmente una normale crescita del neonato, ma senza fornire gli anticorpi ed i micronutrienti presenti nel latte materno.

Lo svezzamento è un periodo di transizione in cui il latte materno o artificiale viene progressivamente sostituito con alimenti semi-solidi e poi solidi, che vanno somministrati gradualmente.

I genitori devono creare una buona relazione con il cibo fin dalla prima infanzia, perché è nei primi tre anni di vita che il bambino instaura le proprie abitudini alimentari ed è quindi importante abituarlo ad una sana alimentazione.

Il compito dello psicologo è di aiutare i genitori a scegliere i cibi adeguati per le diverse fasce di età: inoltre, deve nutrire e dare energia, ma deve essere anche piacevole e stimolare la loro fantasia.

Con l’alimentazione solida il bambino impara a mangiare da solo e decidere anche la quantità e qualità dei cibo. Da questo periodo in poi vi potrebbero essere dei rischi e conseguenze per il bambino che o viene cibato in maniera esagerata (e potrebbero scaturire in seguito delle forme di obesità di sviluppo) o mette in atto forme di restrizione alimentari.

Un nuovo disturbo del comportamento alimentare si chiama Arfid ovvero “Disturbo evitante restrittivo nell’assunzione del cibo”. Si presenta intorno ai 2–3 anni fino alla preadolescenza.

Chi ne soffre di fatto evita il cibo e se ne disinteressa, oppure lo seleziona in modo accurato, mangiando solo pochissime categorie di alimenti, scelti in base al colore, la consistenza e l’odore, questo e un tipo di alimentazione selettiva. I bambini manifestano il proprio disagio oltre che evitando e selezionando il cibo, esprimendo difficoltà emotive e relazionali in famiglie con forti tensioni.

Altro compito importante è il lavoro con “l’adolescente” nel comportamento alimentare.

È una fase molto importante, in cui il corpo gioca il ruolo di grande protagonista. Con trasformazioni a volte anche imbarazzanti, e con l’irrompere della sessualità.

A tutto ciò si aggiungono dei modelli culturali di una bellezza irraggiungibili, che rafforzano un’immagine corporea ideale corrispondente ad un corpo magro e prestante.

Quindi gli adolescenti devono fare i conti con una perfezione diversa dalla normalità. Uscire da questo messaggio a cui gli adolescenti vengono bombardati continuamente dai giornali, pubblicità e televisione è molto difficile.

Negli USA negli anni 1998/1999 nascono dei siti “Its not a diet – it’s a life style” che poi si sono propagati anche in Europa dal 2002-2003. Precisamente sono quelli a favore dell’anoressia, che vengono chiamati pro-Ana e quelli a favore della bulimia, meno diffusi, detti pro-Mia.

In Italia si stimano 300mila siti web tra blog e forum che incitano, più o meno volontariamente, al disagio alimentare per mezzo di pratiche che portano all’anoressia o alla bulimia. Queste pratiche sono considerate un vero “stile di vita”, i blog e i forum pubblicizzano qualcosa di normale che normale non è.

Bisognerebbe mettere in atto dei fattori di protezione dalla famiglia, scuola e comunità e tutto questo anche alla prevenzione svolta dagli psicologi, il consiglio che possiamo dare alla famiglia ed alla scuola è come entrare in relazione con gli adolescenti.

La famiglia deve porre delle basi prima della fase adolescenziale: è fondamentale che dia un esempio in modo che la l’adolescente si possa identificare ed anche imitare., quindi l’importanza anche di una buona qualità delle relazioni. In questo momento di passaggio l’adolescente ha bisogno che i genitori debbano saper stare nell’attualità anche se presenta incertezza, ambivalenza e confusione.

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Trovare la serenità dopo un aborto spontaneo

Quando la donna ha un aborto spontaneo sente cadergli il mondo addosso: sente un forte senso di vuoto, percepisce l’accaduto come un terremoto che irrompe nella propria mente, e annulla tutti i progetti e le fantasie elaborate nei confronti di questo bambino immaginario e desiderato. È un lutto terribile.

Bisogna chiamarlo bambino anche se si tratta di un feto, perché per noi il feto è già un bambino. Lo abbiamo così amato che rappresentava il bimbo dei nostri sogni, come se lo avessimo già con noi. Dopo l’aborto la donna, nella maggior parte dei casi, mostra un atteggiamento triste, depresso sia nella vita familiare con il suo partner che sul lavoro.

Più aspettative si erano riposte nella gravidanza più traumatico può essere l’evento, perché non si è più donna e figlia ma anche madre, quindi ci si deve preparare ad accogliere il nascituro emotivamente. Specialmente quando si vede la prima ecografia s’instaura un legame sia fisico che mentale quindi si fantastica come sarà, come cambierà la sua vita e cosa dovrà comprare per il corredino e come sarà la sua cameretta.

La donna sta vivendo una forte depressione, demotivata in ogni comportamento anche sul piano sessuale, componente importate sono le problematiche ormonali come: la riduzione del testosterone libero, aumento degli ormoni dello stress (cortisolo e prolattina) riduzione della dopamina e serotonina che regolano il tono dell’umore. Tutto ciò frena anche comportamenti assertivi come: l’iniziativa, la voglia di fare, la progettualità la voglia di vivere e di conseguenza anche il desiderio sessuale.

Non tutte le donne vivono nello stesso modo questo dolore, ognuna lo vive in maniera diversa: chi si chiude nel mutismo e si distacca da chi le sta intorno disinteressandosi di tutto e cade in una depressione profonda, chi si butta negli svaghi e nel lavoro e sembra che momentaneamente a superato l’accaduto. In tutto ciò la donna deve essere aiutata e non giudicata.

Se lo stato di depressione dura per più di sei mesi sarebbe opportuno di chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta, che potrebbe aiutarla ad elaborare questo momento delicato. Consigliandole inoltre di condividere il momento con il proprio partner, con i familiari ed amici più intimi, non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto in certi momenti così dolorosi.

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La cicogna non arriva: si è dimenticata di me?

Quando dal personale medico viene pronunciata la parola “infertilità-sterilità”, intesa come incapacità a procreare, per la coppia è come una doccia fredda: non si aspettava tale diagnosi dopo un anno di rapporti continui senza protezione.

La coppia si lascia sopraffare da sentimenti di rabbia angoscia e depressione perché diamo per scontato che la vita che ci è stata data ci aspettiamo di poterla moltiplicare.

Quando parliamo di infertilità, il problema il più delle volte è risolvibile ed è legato ad uno o più fattori che interferiscono con la fertilità. Al contrario nella sterilità, in cui dopo vari accertamenti si rivela che uno o tutte e due i componenti della coppia vivono una condizione fisica permanente, che non rende possibile il concepimento.

Questo è un momento molto delicato e stressante nel vissuto della coppia, che dovrà affrontare i tentavi falliti, le analisi cliniche e tutto ciò che ne consegue, con la perdita di un progetto. Tale diagnosi viene percepita come un lutto, perché di lutto si tratta, la coppia deve elaborare la perdita di un sogno di un progetto e quindi rivedere anche il loro rapporto.

Risolvere il problema dell’infertilità è un percorso molto difficile e complicato, sia a livello medico che psicologico, che metterà alla prova i componenti della coppia: per la donna forse è più facile affrontare il problema, per l’uomo è più complicato mettere in discussione la sua fertilità uguale virilità. Il più delle volte non riescono a sopportare tale stress e potrebbe succedere che la coppia si potrebbe sciogliere.

Quando si desidera un figlio, specialmente la donna già prima di sapere se riesce ad esaudire il suo desiderio lo fantastica, quindi nel venire a conoscenza della sua infertilità deve cambiare prospettiva e fare i conti con i suoi progetti infranti e con la solitudine ed il suo vuoto.

Nel corso degli ultimi anni si è registrato una drastica riduzione delle nascite, per cause legate sia a fattori economici, sociali e molti modelli culturali, ma anche perché in questi ultimi trenta anni si è riscontrata che l’infertilità maschile si è raddoppiata. I maschi sono dei grandi “immaturi”, come dice il grande scrittore Philip Roth che è uno dei pochi a scandagliare la psiche maschile, sono maestri dell’arte della rimozione e della negazione della malattia.

L’uomo solo quando decide di formare una famiglia e si desidera dei figli scopre che il responsabile dell’infertilità nella coppia non è solo la donna, come si è portati a pensare d’impulso, oggi come nel nel passato, invece le cause nella difficoltà ad avere figli, sempre più spesso è causata dalla fertilità maschile.

Eppure in molti casi garantirla e preservarla sarebbe relativamente facile: basterebbe sottoporre i ragazzi ad un visita preventiva, nell’infanzia ed adolescenza, e a non mettere in atto nell’adulto stili di vita sbagliati come fumo (molto spesso sottovalutato), sostanze stupefacenti (tra cui l’uso abituale di marijuana), alcool ed infezioni per rapporti non protetti.

I giovani non pensano che un giorno potrebbero desiderare la paternità, infatti l’andrologo per l’uomo è una figura a cui difficilmente si ricorre, ma si pensa subito di far effettuare una visita alla donna da un ginecologo. Nel momento in cui la coppia scopre di avere delle difficoltà nel generare un figlio, si pensa subito di ricorrere ad una procedura di procreazione assistita (PMA) e una su quattro salta la visita da un andrologo mentre il problema si potrebbe risolvere con metodi meno complicati e meno costosi.

Si cerca una scorciatoia più veloce per arrivare allo scopo, è un errata convinzione: ci si accanisce sulla donna mentre l’uomo è nella maggior parte dei casi il grande assente, il figlio si fa in due quindi entrambi i partner si debbano prendere carico sia nella pratica che psicologicamente.

Il PMA si mette in atto solo quando ci sono delle certezza nella sterilità maschile o femminile, l’obbiettivo sarebbe più prevenzione e risolvere il problema con la “procreazione naturalmente assistita”. Per la donna il parametro è molto importante, e più si va avanti negli anni meno c’è la probabilità di concepire. L’età ottimale è a 20-25 anni, e dopo i 40 anni la possibilità del concepimento è molto bassa, per l’uomo decresce nel tempo ma tende a rimanere stabile e può procreare fino a 80 anni.

Uno dei fattori studiati fin dal 1930 oltre che di natura organica più facilmente identificabile, sono ora soprattutto i “fattori psicogeni” che sono legati a conflitti psicologici, emozionali e psicosociali.

Ciò che emerso dalle ultime ricerche, sulle problematiche psicologiche della coppia, è il modo come vivono il desiderio alla genitorialità, al desiderio che li unisce e alla paura del futuro. Infatti, oltre che il supporto psicologico alla coppia si cerca di seguirli anche separatamente, perché non vivono il problema nella stessa maniera e quindi il problema va trattato in maniera diversa.

Quindi possiamo dire che sia il responso di infertilità che di sterilità fa emergere uno stato ansiogeno, e questo stadio porta tanto stress: infatti, l’endocrinologo constata che tale stato agisce proprio sulla fertilità, causando irregolarità nel ciclo mestruale, nell’ovulazione e nell’impianto dell’ovulo.

Il primo passo è di non sentirsi sterile ed inutile per la donna e per l’uomo cadere nella trappola di confondere l’infertilità con l’impotenza: la donna si sente circondata da donne incinte e non ha voglia di guardarle e frequentarle, oppure non ama prendere in braccio i bimbi delle amiche. Tutto ciò è sbagliato perché lasciarsi andare alla tenerezza ai sentimenti buoni può fare bene all’anima e può rimettere a posto gli ormoni.

Come potrebbe essere sbagliato avere rapporto solo nei giorni fecondi “a comando”, perché diminuisce la fecondazione e meno si hanno rapporti e meno c’è la produzioni di spermatozoi e quindi i periodi di astinenza creano ancora più problemi nel procreare.

La sterilità è una “malattia dei sentimenti” e non bisogna pensare solo al corpo ma anche all’anima cercare di aiutarsi con tutto, con rimedi naturali con l’omeopatia e con un supporto psicologico sia individuale che una terapia di coppia.

In conclusione possiamo dire che l’emozioni non accettate si scaricano sul corpo. Tali emozioni creano blocchi fisici ed emotivi attraverso i centri del cervello, che, pur restando inconsci, influenzano la fertilità. Il più delle volte quando la coppia smette di percepirsi una coppia sterile non pensa più alle problematiche dell’infertilità o adotta un bimbo: è il momento che senza aspettarselo si diventa una coppia prolifica e si riesce ad avere un concepimento naturale.

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L’allattamento è un diritto della madre

L’esperienza nutritiva inizia fin dalla nascita e certamente non assolve esclusivamente al bisogno primario della fame. È Sigmund Freud il primo a parlare di “Oralità”., e l’autore ha suddiviso lo sviluppo psicofisico in tre stadi libidici di cui il primo è lo stadio orale. Questo domina la prima relazione affettiva e si incentra intorno alla funzione alimentare: l’allattamento.

Da questo momento l’oggetto cibo ricorrerà in tutte le fasi della nostra vita; l’ambiente, la tradizione e la cultura lo investono di molti connotati simbolici. Dal momento che il bimbo viene al mondo ama attraverso la bocca e la madre ama e vive attraverso il seno. L’allattamento oltre che essere fonte di nutrizione per la sopravvivenza è anche un bisogno fisiologico, carico anche di valenze psicologiche, è il primo rapporto che il bimbo instaura appena viene al mondo.

Winnicott parla nei suoi trattati di come l’allattamento al seno rappresenta la prima forma di comunicazione ed in grado di condizionare le successive esperienze comunicative e relazionali, è vero che l’allattamento rappresenta l’esperienza elettiva in cui avviene l’incontro, ma anche il primo conflitto. Infatti possiamo dire che il legame con la madre non si attua solo per la suzione o per il soddisfacimento della fame, ma per un contatto con il “fisico caldo”.

Quest’ultimo rappresenterebbe infatti un bisogno molto forte nelle prime fasi della vita, anzi è il fattore principale della fase dell’allattamento.

Un esempio valido è l’esperimento della nutrizione di Harry Harlow (1945), che dimostrò l’importanza delle sensazioni tattili nel supporto madre-figlio. Lo studioso dimostrò come i cuccioli di scimmia trascorrevano molto più tempo con un manichino di stoffa morbida, piuttosto che con quello di filo di ferro provvisto di poppatoio. I cuccioli restavano con il manichino di ferro solo il tempo per prendere il latte e poi la maggior parte del tempo lo passavano con il “manichino-madre” di stoffa morbi.

Quindi possiamo dire che l’attaccamento non è legato al piacere della suzione o al soddisfacimento della fame, ma a un contatto fisico caldo.

Questo è un bisogno molto importante nelle fasi della vita, anzi è il fattore centrale nel legame dell’attaccamento.

Certamente il latte materno è considerato il miglior alimento che un neonato possa ricevere: varie ricerche hanno constatato che il latte materno potrebbe immunizzare il bimbo per molto tempo da malattie respiratorie, otiti, infiammazioni intestinale ed anche la mamma potrebbe trarne dei giovamenti. Infatti, è stato riscontrato che potrebbe proteggere da tumori il seno e la mamma potrebbe smaltire chili di troppo accumulati durante la gravidanza.

Purtroppo ci sono mamme che vivono questo momento in modo conflittuale e con profonda frustrazione. La mamma si chiede come comportasi se non si può allattare o non si vuole allattare? Durante la gravidanza la mamma fa tante fantasie, sia sul come sarà il proprio bimbo, ma soprattutto come si comporterà lei una volta venuto al mondo.

Inizialmente fantastica che sicuramente lo allatterà al seno ma poi percepirà un senso di frustrazione perché interverranno dei problemi fisiologici o psicologici, e sarà costretta a prendere una decisione che non rispetterà le sue fantasie.

Il più delle volte non potrà decidere autonomamente perché tutti interverranno nel dare consigli e giudizi, dall’ostetrica, ginecologo, medico curante, pediatra ed anche la vicina di casa che le inviano dei messaggi discordanti cioè che se lei volesse, sicuramente ci potrebbe riuscire, anche se ha il seno sanguinante per le ragadi oppure che si sta affacciando la maternity blues.

Ci si dimentica della mamma con tutte le problematiche che l’allattamento comporta, e si pensa solo al giovamento che il bimbo ne può trarre. Non si pensa alla madre che dovrà essere forte e lucida per occuparsi del proprio bimbo, e che ha bisogno di tanta cura ed attenzioni. Il più delle volte lei lo vorrebbe tanto un sostegno psicologico, ma proprio non ci riesce, non dovrebbe essere considerata, da chi le sta intorno, una mamma di serie “B”.

Sarebbe importante che lei fosse sostenuta dal proprio compagno che dovrebbe aiutarla a superare il momento.

E’ vero anche che la neo mamma deve saper chiedere aiuto, perché si potrebbe sentire una perdente se ammettesse che non ce la farà da sola a superare i problemi di cui abbiamo parlato, ma tutto ciò che sopraggiunge per la neo mamma è qualcosa di nuovo ed imprevisto in cui non si è mai trovata e forse neanche se l’aspettava.

La figura di una persona competente, come uno psicoterapeuta, la potrebbe aiutare a farle superare la frustrazione e prendersi cura, oltre che del bimbo, anche di sé stessa e farle capire quanto sia importante la sua persona e cercare di sostenerla in quel momento delicato.

La diade madre-neonato deve progredire in maniera tranquilla, perché importante è l’allattamento al seno, ma se non si può, è ugualmente positivo e gratificante l’allattamento con il biberon. La mamma quando dà il biberon deve instaurare un rapporto sereno ed affettuoso con il proprio bambino, lo deve guardare negli occhi sussurrare parole dolci ed accarezzarlo, quindi il compito di chi la tiene in cura, come tutta la sua famiglia, devono sostenerla ed accettarla anche se non sono d’accordo per le sue decisioni.

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Forse non sono una brava mamma?

La depressione post-partum è sempre più frequente nella società moderna, ma i mass media danno risalto più ai fatti di infanticidio o madri che non riescono a vivere lo stress e quindi anche se lo hanno molto desiderato e fantasticato durante la gravidanza, non sono capaci di proteggere il loro bimbo dalla loro aggressività.

Ma oltre a queste situazioni molto pubblicizzate, estreme e gravi e per fortuna rare, esiste un ampio numero di donne che dopo il parto vive momenti di difficoltà psicologiche. Tali problematiche appaiono più evidenti nelle primipare, perché sono legate soprattutto all’enorme cambiamento dell’arrivo del bambino che porta con sé.

La mamma, nel momento del rientro a casa con il neonato, si sente il più delle volte inesperta per l’accudimento del piccolo come l’allattamento, il riconoscimento dei segnali di benessere e di malessere e l’adattamento ai ritmi biologici.

La neo-mamma può fallire in questo ruolo e tutto questo le procura ansia e talvolta uno stato depressivo. Può cadere in un tunnel buio, e non c’è nella sua giornata né gioia né sorrisi.

In Italia la depressione post-partum non è molto riconosciuta e curata: è sottostimata, perché il 50% che ne soffre non chiede aiuto e se le viene offerto lo rifiuta.

Chiede aiuto solo per come accudire il bambino, e in seconda battuta per il malessere psicologico e per le difficoltà di coppia. Il più delle volte l’armonia nella coppia tende ad affievolirsi, ci troviamo di fronte ad un parto, tre nascite e due depressioni.

Tre nascite perché insieme al bambino nascono sia il padre che la madre; due possibili depressioni perché il percorso di transizione alla genitorialità può portare stress e disagio a i due neo genitori, specialmente quando si presentano dei di fattori di rischio, come la nascita di un bimbo prematuro.

La letteratura classifica questi disturbi e li indica in 3 categorie principali: Maternity Blues – Depressione pst-partum – Psicosi puerperale.

Il Maternity Blues rappresenta il disturbo emotivo più comune e allo stesso tempo più lieve e transitorio, che ricorre molto spesso nella prima settimana dal parto, si presenta con la tendenza al pianto irritabilità, labilità dell’umore, disturbi del sonno e tristezza, tutto ciò è una conseguenza del parto e nel 20% dei casi si evolve con una depressione maggiore nel giro di un anno.

Mentre nella depressione post-partum che richiede una diagnosi differenziale rispetto alla Maternity Blues, essa può insorgere già verso il sesto mese di gravidanza con tutti i relativi disturbi, come insonnia, autosvalutazione, difficoltà di concentrazione e disturbi alimentari.

Il vero esordio della depressione compare nei primi tre mesi dal parto.

Si aggiungono altri disturbi di tipo ormonale, cambiamento del proprio fisico, variazione del ritmo sonno-veglia a causa dell’allattamento, dissapori con il partner e mancanza di supporto sociale: infatti la famiglia di origine è molto importante per creare un ambiente accogliente per la neo mamma, senza farla sentire in colpa ed una cattiva madre.

La psicosi puerperale è il disturbo psichiatrico più grave e raro. I sintomi caratteristici sono: deliri, allucinazioni, brusche oscillazione dell’umore disturbi del comportamento alimentare. La madre manifesta un rifiuto totale del piccolo e non si dedica neanche alla cura del sé. Spesso compaiono idee paranoide di persecuzione e si rileva un alto rischio di suicidio e di infanticidio.

Tali disturbi hanno delle conseguenze sia a breve che a lungo termine, sia nel bambino che nella relazione di attaccamento tra la madre e il neonato.

Per ovviare queste conseguenze bisognerebbe lavorare in equipe dall’ostetrica, ginecologo, psicologo, medico di base che devono individuare le donne che potrebbero soffrire di questi disturbi, cioè individuare le donne a rischio, oppure intervenire tempestivamente quando i sintomi sono già accertati, soprattutto i suddetti professionisti debbono avere una adeguata preparazione psicologica ed essenziale la disponibilità dell’ascolto.

Riferimenti bibiografici:

  • “Depressione postnatale”, Jeannette Miligrom
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Accettare il lavoro che non piace

Sono frustrata il mio lavoro non mi piace.
È giusto accettare il lavoro che non piace?

Molti giovani si arrovellano il cervello, se decidere di accettare un lavoro che non riguarda ciò che hanno studiato e che non risponde alle loro qualità e creatività. Passare dall’Università all’impiego in molti casi è veramente traumatico, i ragazzi fanno sogni e hanno cassetti pieni di speranze che non corrispondono alla realtà, quindi debbono ingoiare tutti i sogni.

Quindi si chiedono, il lavoro che mi offrono farà per me e ce la farò ad accettarlo? Il più delle volte la risposta è negativa.

Perché le offerte di lavoro sono così distanti dal loro immaginario?

Purtroppo in questi ultimi anni il lavoro è una risorsa, caratterizzata da scarsità, quindi rifiutare anche se non rispecchia le loro caratteristiche, diventa un lusso e quindi vengono spinti e costretti dalla disperazione ad accettare un lavoro che non li soddisfa. Cercano di sopprimere dentro di loro la voce che gli dice che sicuramente vorrebbero fare altro nella vita, purtroppo il più delle volte non è possibile ascoltarla. La persona si sente frustrata, perché i suoi sogni e speranze vengono disattese, il mondo del lavoro fa ingoiare delle offerte che sono molto distanti dall’immaginario che hanno sognato.

Nella nostra vita il lavoro occupa un ampio spazio, ci serve per affermarci nella società, per sentirci realizzati e soprattutto per esaudire dei progetti di autonomia dalla famiglia di origine e poter realizzare dei progetti affettivi. Quando tutto ciò non si può realizzare sopravvengono dei problemi psicologici, come depressione, attacchi di panico, rabbia, frustrazioni ed infine rassegnazione e mancanza di autostima. Si avverte il peso di una volontà che non è stata abbastanza forte, un pensiero ossessivo continuo che arrovella la loro vita “vorrei lasciarlo ma non ho il coraggio”.

Non c’è cosa peggiore che odiare il proprio lavoro, svegliarsi la mattina e pensare di passare ancora molti anni a svolgere un attività che non piace. Ci si sente intrappolati in una vita che non ci appartiene e derubati del propria creatività e tempo. La vita diventa piatta e la dimensione psichica pesa: ciò che si prova è alienazione.

Purtroppo in questi ultimi anni c’è una credenza che chi non accetta certi lavori è perché “non si ha voglia di lavorare”, invece bisogna capirlo psicologicamente e cercare di aiutarlo nella sua scelta professionale e non criticarlo, fare in modo che lui dia il meglio di sé e quindi rafforzi la sua autostima che deve essere nutrita e rafforzata e non sopprimerla.
Il lavoro che piace è una conquista, dobbiamo combatterlo per averlo, anche se dobbiamo sacrificare anche la parte economica.

“Scegli il lavoro che ti piace e non lavorerai un solo giorno in tutta la vita” (una frase di Confucio)

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Mai confondere amore con la dipendenza

Non siamo mai privi di difese
come nel momento in cui amiamo.
(Sigmund Freud)

L’amore è un affetto profondo e complesso, quindi difficile definirlo e trovare delle parole che ne rendono il significato e una definizione piena e chiara, quindi sarà più facile riuscire a riconoscere un amore non vero, che un amore vero.

Il più delle volte pensiamo di aver trovato il nostro principe azzurro invece è un manipolatore affettivo che ci renderà la nostra vita un inferno; inizialmente riponiamo le nostre speranze in quella persona che ci fa sperare di aver trovato la felicità in sua compagnia, sperando che il suo amore ci donerà ciò che percepiamo ci sia mancato.
Nell’infanzia ci viene passato un messaggio falso, un giorno arriverà l’uomo o la donna perfetta che ci amerà per tutta la vita, donandoci tutto ciò che percepiamo mancarci. In molti casi questo pensiero si trasformerà in una trappola, ci accorgeremo molto presto che il principe si trasformerà in un rospo (manipolatore affettivo) o la principessa in strega.
Quasi subito, tempo due mesi, chi ci ha dichiarato eterno amore si trasformerà in un “vampiro” affettivo”; il comportamento giusto sarebbe stato scappare, darsi alla fuga, ma il più delle volte non ci si riesce subito.

O non siamo pronte ancora di pensare a noi stesse?

Lui, che chiameremo il “vampiro affettivo”, inizialmente e lentamente con le sue manifestazioni d’amore riuscirà ad entrare nel cuore del partner (sia al maschile che al femminile perché non è indenne ne l’uomo ne la donna), poi abbastanza presto gli cade la maschera e comincia a mettere in atto i suoi comportamenti da manipolatore e la vittima si sottomette al suo carnefice perdendo la stima, la fiducia in sé stessa, con conseguenze di ansia, sensi di colpa, paura, mancanza di sicurezza in pubblico, senso di vergogna ed isolamento.
Sul piano fisico c’è la comparsa di disturbi del sonno, somatizzazione, malessere generale, depressione, idee suicide, e disturbi del comportamento alimentare, la sua violenza psicologica è invisibile agli estranei è quindi più pericolosa e subdola.

La dott.ssa Robin Norwood è una psicoterapeuta americana, specializzata nel trattamento di comportamenti patologici nelle relazioni affettive, la sua pratica le ha permesso di paragonare l’eccessiva dipendenza affettiva, alla dipendenza da droghe, alcol e disturbi alimentari; nel suo libro “Donne che amano troppo” spiega che le donne scusano e non vedono i comportamenti negativi del partner perdonando tutti i suoi atteggiamenti negativi, quindi amano troppo e dimenticano se stesse.

Il dipendente si lascia invadere in maniera ossessiva da un unico oggetto di piacere, in psicologia il termine oggettivazione viene utilizzato anche per indicare una persona.
Ci chiediamo da dove deriva questo sintomo? Le teorie americane tendono a spiegare che la dipendenza affettiva è come una malattia delle emozioni e che i sentimenti d’abbandono e di vergogna interiorizzati costituiscono i substrati permanenti e sono alla base della dipendenza.

Questo problema deriva dall’infanzia, il dipendente non è stato in grado di separarsi simbolicamente dalla madre; sarebbe stato in grado di distaccarsi dai loro genitori senza angoscia, solo se questi lo avessero incoraggiato in modo autentico e a non essere colpevolizzato quando comincia a fare dei passi verso l’esterno.
Questo allontanamento non deve essere vissuto da ambedue le parti come un abbandono, infatti il dipendente lo vive come una ripetizione di una sensazione dolorosamente vissuta già nel passato.

Nel caso in cui il dipendente lasciasse il manipolatore deve cominciare a prendersi cura di se stesso ed il più delle volte non è pronto per farlo e quindi preferisce essere mal accompagnato che vivere solo.

La negatività di tale rapporto non potrà che peggiorare e quando la persona dipendente cercherà di essere rassicurata e lui tenderà sempre di più a fuggire.

Tale rapporto distruttivo potrebbe durare anni, ma nel momento in cui si deciderà di uscire da questa gabbia e rompere le catene che li tiene legati in questo rapporto malato sicuramente non ce la farà da solo, ma dovrà chiede aiuto ad una persona competente come uno psicoterapeuta e dovrà lavorare su se stesso.
Il migliore antidoto è amarsi, riconquistare la stima persa e promettersi di non ricascarci “ Mai più”

Riferimenti bibliografici:

  • “La manipolazione affettiva”, Isabella Nazare-Aga-Editore Castelveccchi srl edizione italiana 2008
  • “Donne che amano troppo” , Robin Norwood- Editore Lyra libri 1988

Lo Studio di Psicologia e Psicoterapia Cardilli offre, oltre al colloquio clinico con supporto psicologico, una consulenza ed una terapia breve (di 4 o 5 incontri) per dare un immediato aiuto, per poi decidere in piena autonomia se trasformare il rapporto in psicoterapia o interromperlo.

È importante che si instauri una relazione empatica di ascolto e fiducia tra psicologo e paziente, tramite la quale si riuscirà a sostenere e a valorizzare le risorse del paziente, che sono già in suo possesso ma che non riesce a riconoscerle, per cercare di far trovare il coraggio in certi momenti difficile della sua vita.
Per le persone che vogliono avere maggiori informazioni sul lavoro psicologico e sui percorsi di psicologia e psicoterapia, è possibile richiedere un primo colloquio a pagamento.

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